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Da Linux al copy-left, passando per il DeCSS

03 Dicembre 2001

Da Linux al copy-left, passando per il DeCSS

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Nella saga del DeCSS, stavolta vince l'industria di Hollywood, ma la EFF rilancia a favore del free speech

Nuovamente in primo piano le vicende legali connesse al DeCSS. Si tratta del piccolo programma in grado di scardinare le protezioni anti-copia dei DVD, o meglio dell’algoritmo e delle chiavi criptate CSS ivi contenute. Il programma venne creato nel 1999 come parte del progetto finalizzato alla messa a punto di lettori DVD per quei computer che girano su Linux. Pubblicato su Internet da un giovane norvegese, il DeCSS è stato subito ridiffuso in innumerevoli siti Web, nonostante le azioni giudiziarie intraprese da varie associazioni industriali. In breve la questione si è allargata a macchia d’olio, diventando una sorta di emblema per le complesse problematiche che ruotano intorno alla libertà d’espressione e alla protezione del copyright nell’era digitale.

Dopo un paio d’anni di diatribe legali, il primo novembre scorso pareva che la bilancia andasse spostandosi dalla parte degli attivisti dei diritti civili online. Una corte d’appello californiana aveva ribaltato una precedente sentenza, stabilendo che DeCSS rientrava nella protezione garantita dal Primo Emendamento alla Costituzione USA: “pure free speech.” A meno di un mese di distanza ecco invece una decisione di segno opposto. Qualche giorno addietro una corte d’appello di New York ha infatti sentenziato che il DeCSS “consente all’utente di copiare il film in formato digitale e trasmetterlo istantaneamente in quantità potenzialmente infinite, di fatto riducendo le vendite dei produttori cinematografici. E Internet è il veicolo ideale per la potenziale distribuzione su scala mondiale di materiale copiato.” Ergo, viene ribadita la condanna già inflitta alla nota rivista hacker 2600 (e al suo editore, Eric Corley) per essere stata tra i primi diffondere online quei link a siti che diffondevano il DeCSS. In attesa dei dettagli esecutivi a margine della decisione, al momento 2600.com segnala soltanto che il pool di legali esaminerà quanto prima il dispositivo della nuova sentenza per avviare, se del caso, ulteriori repliche giudiziarie.

In netta contraddizione con i giudici della West Coast, non c’è dubbio che stavolta si tratti di un’importante successo per la grande industria. “È una vittoria notevolissima per i produttori di contenuti che vogliono utilizzare la tecnologia per proteggere i propri materiali in formato digitale”. Lo ha dichiarato Charles Sims, l’avvocato che rappresentava i grandi studi cinematografici di Hollywood cui si deve l’iniziativa legale. In pratica il tribunale di New York, pur riconoscendo al codice informatico lo status di free speech, ha considerato “di contenuto neutro” il materiale relativo al caso specifico, assegnandogli quindi un livello ridotto di protezione rispetto ad altri contenuti espressivi. E soprattutto rispetto alle esigenze (e alle pressioni) dell’industria cinematografica.

La quale da due anni insiste per la totale cancellazione del DeCSS da Internet, a sostegno del notorio Digital Millennium Copyright Act (DMCA), che rimane la pietra dello scandalo non soltanto in questo caso controverso. Proposto da una cordata di potentati industriali che radunano tra gli altri i produttori di software, le case discografiche e gli stessi studi di Hollywood che stavolta dichiarano vittoria, il DMCA del 1998 impedisce la violazione di ogni sistema di protezione anti-copia e anche la distribuzione degli strumenti potenzialmente utili a scardinare copyright, quand’anche gli utenti non facciano nulla di illegale una volta infrante le protezioni. Uno spettro assai ampio quindi, che secondo i sostenitori dei cyber-rights infrange proprio sul diritto alla libera circolazione delle idee a livello globale veicolata dall’avvento di Internet. E anche se la recente sentenza vuole dar ragione ai fautori del DMCA, di fatto risulta impossibile ripulire tutti i siti dal DeCSS e quindi illusorio anche solo pensare di bloccarne la diffusione.

In tal senso va segnalata l’iniziativa della Electronic Frontier Foundation all’indomani di quest’ultima sentenza pro-copyright. L’associazione ha diffuso una richiesta di archiviazione su casi simili perché il “programma è ampiamente disponibile su Internet e non può quindi infrangere su alcun segreto commerciale.” La mozione è stata formalmente presentata alla stessa corte di San Josè che il 1 novembre aveva decretato “free speech” il DeCSS. L’iniziativa mira a creare un serio precedente che potrebbe spazzar via i casi tuttora pendenti nella aule dei tribunali, nonché prevenire ulteriori contraddizioni tra le stesse corti giudiziarie sparse sul territorio nazionale.

I punti qualificanti della proposta targata EFF riguardano soprattutto le premesse, in cui si ricorda ad esempio come oramai esistano su Internet “centinaia, forse migliaia di siti, dove il DeCSS può essere liberamente esaminato, copiato o prelevato via download”. Inoltre, riviste cartacee Wired e Technology Review (curata dal MIT) hanno pubblicato i codici sorgenti di simili programmi, mentre sul Wall Street Journal è apparsa una delle chiave d’encriptazione del CSS. Ciò comporta il fatto che quest’ultimo non vada più considerato un segreto commerciale da tutelare a norma di legge, tesi sostenuta precedentemente dagli avvocati della grande industria. Senza infine dimenticare come lo stesso CSS sia stato oggetto di specifiche ricerche universitarie, in particolare presso la Carnegie-Mellon, Berkeley e l’Università di Lulea in Svezia, i cui professori usano questo caso come un classico esempio dei sistemi di “sicurezza” facilmente vulnerabili, grazie a programmi tutt’altro che complicati come il DeCCS. Sulla base di queste premesse, la EFF ha ribadito che queste azioni legali “vorrebbero mettere la corte nell’impossibile posizione di tentare di rimettere il genio dentro la bottiglia.”

Non è ancora detta l’ultima parola, insomma, sulla saga del DeCSS e sull’applicazione del copyright nell’era digitale — o meglio sul copy-left.

L'autore

  • Bernardo Parrella
    Bernardo Parrella è un giornalista freelance, traduttore e attivista su temi legati a media e culture digitali. Collabora dagli Stati Uniti con varie testate, tra cui Wired e La Stampa online.

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